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giovedì 14 settembre 2023

Recensione "Fame d'aria" di Daniele Mencarelli



Cari lettori,

oggi la nostra collaboratrice Noemi ci parla del romanzo "Fame d'aria" dell'autore Daniele Mencarelli, uscito lo scorso gennaio per Mondadori.

Venite a scoprire cosa ne pensa...




Titolo: Fame d'aria
Autore: Daniele Mencarelli
Editore: Mondadori
Genere: Narrativa contemporanea
Uscita: 17 gennaio
Pagine: 180


Tra colline di pietra bianca, tornanti, e paesi arroccati, Pietro Borzacchi sta viaggiando con il figlio Jacopo. D’un tratto la frizione della sua vecchia Golf lo abbandona, nel momento peggiore: di venerdì pomeriggio, in mezzo al nulla.
Per fortuna padre e figlio incontrano Oliviero, un meccanico alla guida del suo carro attrezzi che accetta di scortarli fino al paese più vicino, Sant’Anna del Sannio. Quando Jacopo scende dall’auto è evidente che qualcosa in lui non va: lo sguardo vuoto, il passo dondolante, la mano sinistra che continua a sfregare la gamba dei pantaloni, avanti e indietro. In attesa che Oliviero ripari l’auto, padre e figlio trovano ospitalità da Agata, proprietaria di un bar che una volta era anche pensione, è proprio in una delle vecchie stanze che si sistemano. Sant’Anna del Sannio, poche centinaia di anime, è un paese bellissimo in cui il tempo sembra essersi fermato, senza futuro apparente, come tanti piccoli centri della provincia italiana.
Ad aiutare Agata nel bar c’è Gaia, il cui sorriso è perfetta sintesi del suo nome. Sarà proprio lei, Gaia, a infrangere con la sua spontaneità ogni apparenza. Perché Pietro è un uomo che vive all’inferno. “I genitori dei figli sani non sanno niente, non sanno che la normalità è una lotteria, e la malattia di un figlio, tanto più se hai un solo reddito, diventa una maledizione.” Ma la povertà non è la cosa peggiore. Pietro lotta ogni giorno contro un nemico che si porta all’altezza del cuore. Il disamore. Per tutto. Un disamore che sfocia spesso in una rabbia nera, cieca.
Il dolore di Pietro, però, si troverà di fronte qualcosa di nuovo e inaspettato. Agata, Gaia e Oliviero sono l’umanità che ancora resiste, fatta il più delle volte di un eroismo semplice quanto inconsapevole.













Pietro Borzacchi e suo figlio, Jacopo, si ritrovano a Sant’Anna del Sannio, uno di quei tanti paesini italiani che sta soffrendo lo spopolamento, dopo che la loro macchina ha avuto un guasto. Per fortuna Oliviero, un meccanico, li aiuta e i due si trovano così ospiti della ormai ex pensione “Da Arturo”, gestita dalla signora Agata e Gaia che dà una mano all’anziana signora per il pranzo, l’unico momento in cui c’è gente nel locale.

Pietro però, fin da subito, è costretto a dare una spiegazione agli strani comportamenti del figlio, in primis ad Oliviero, e a rispondere a quella domanda che ormai lo stanca, lo svuota per quante volte gli è stata posta: “Cos’ha suo figlio?” perché in fondo Pietro vorrebbe solo togliere al mondo la voglia di parlare, continuare a chiedere.

Jacopo è autistico. Non parla, non sa fare nulla e non è autosufficiente.

Pietro successivamente racconta, sia ad Oliviero che ad Agata, di essere originario di Agnani, in provincia di Frosinone e di essere diretto a Marina di Ginosa, in Puglia, dove la moglie, Bianca, la prossima settimana li raggiungerà per festeggiare insieme ai parenti di lei l’anniversario di matrimonio e considerato che avevano del tempo, prima dell’arrivo della moglie, voleva visitare una parte d’Italia che non conosceva e aggiunge anche che si ritrova, per un disguido, con tutte le carte di credito bloccate fino al lunedì e di conseguenza con pochi contanti.

Tutto il racconto della volontà di fare un tour italiano sembra avere quasi un senso logico eppure… Soltanto Gaia, costretta a far ritorno in quel paese fantasma per rimanere con la madre rimasta vedova, facendosi spazio, aprendo uno spiraglio nella brezza dura che avvolge Pietro sembra cogliere tutti i pezzi che, come un mosaico, compongono una realtà ben differente da quella raccontata perché qualcosa non torna. Cosa nasconde Pietro?

È innegabile il fatto che quando padre e figlio rimangono soli c’è tensione tra i due o meglio, è come se Pietro si sentisse a disagio e alla fine rimane solo il gelo di alcune frasi, come sentenze sputate contro il figlio:

“<A qualcosa serve , Lo Scrondo.>”

“Lo Scrondo ha riempito il pannolone di merda. <Schifoso.>”

È con queste frasi e in particolare con quel soprannome, Scrondo, che Pietro apostrofa Jacopo. Quel soprannome nato da un cartone ma che, prima di suo figlio, Pietro utilizzava per etichettare gli strani, gli irregolari, gli anormali. Quelli che considerava mostri. Un soprannome cattivo, da affibbiare per trarre dalla disgrazia altrui una battuta. 






Suo figlio, il sangue del suo sangue. Per giunta autistico che non parla, che non sa fare quasi nulla da solo...E voi, come me, penserete: come fa un padre a trattare male il proprio figlio malato, come se fosse un peso? Non riuscivo a concepire la cattiveria contro Jacopo.



"Sarebbe bello poter dire che un attimo, almeno uno, è risparmiato.
Un attimo d’amore, uno solo, come un brillante incastonato nell’anello.
Ma sarebbe falso.
Semplicemente.
Dal giacimento di pietra preziosa è stato strappato tutto. Negli altri umani, fortunati, la vena da cui estrarre si rigenera, anche di fronte al dolore e alla malattia, e anche in Pietro è stato così per giorni, anni.
Poi il tesoro si è prosciugato.
Sino a quello che rimane ora.
Come un cratere. Vuoto."





Poi ho capito. Sul finale ho realizzato. Ed è stato proprio il finale a farmi comprendere il titolo, che all’inizio mi sembrava incoerente: FAME D’ARIA, quella che si prova quando i polmoni dalla paura di perdere tutto, nel giro di pochi secondi, si svuotano, ti lasciano senz’aria. Boccheggi interdetto, non realizzando che è arrivato il momento di “mettere a fuoco la realtà” perché non si può scappare per sempre.

Ho realizzato che Pietro non è che semplicemente un padre che non può e non vuole accettare la realtà. Non può credere che al mondo esista un Dio capace di far “male” ad un bambino. Non può credere che esistano malattie che rendono così fragile, vulnerabile un bambino.





E così ama nell’unico modo che può: odiando. Odiando quel figlio che non è piú “come tutti” da quando ha 10 anni, odiando il mondo intero se necessario.

Amare e odiare sono separati da un filo sottile e come l’amore può trasformarsi in odio, può accadere anche il “miracolo” inverso. È vero, ma a volte si odia proprio per non dover amare, per non doversi affezionare a qualcosa o qualcuno a cui non vorremmo mai essere legati. E forse è così anche per Pietro.






Ai tanti “Perché?, Perché a me?, Perché proprio mio figlio? Perché è così ? Cos’ho fatto di male? ” non sa rispondere. Non c’è risposta, come non c’è risposta alle domande della gente, a cui è stanco di rispondere.





"Lo ha desiderato come si può desiderare un miracolo.
Si è prosciugato gli occhi a forza di chiedere anche quello.
Un miracolo.
Un figlio normale.
Non un estraneo pure a se stesso.
Che vive e ama da animale, legato al proprio branco dall’odore, per istinto.
Ma l’amore degli uomini, persino l’amore, richiede un minimo di ragione, di intelletto.
Pietro su questo non ha più dubbi."

Stile semplice e linguaggio diretto, “crudo”, si fondono con la struggente e purtroppo quotidiana realtà che ci viene raccontata in questo romanzo:

Sono ancora troppi i bambini affetti da malattie, più o meno gravi, che hanno ogni giorno a che fare con la scarsa assistenza (anche economica, ma non solo) da parte della società che spesso si volta dall’altra parte davanti ai loro bisogni.

I genitori fanno tutto quello che possono, amando incondizionatamente ma lottando, ogni giorno, contro il senso di impotenza e credo che questo romanzo trasmetta a pieno quello che si prova.

“A chi tende la mano, senza mai ricevere aiuto, o carezza. Ai dimenticati che resistono. A chi è andato giù.”






 



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