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martedì 28 maggio 2019

Recensione "Ogni piccola cosa interrotta" di Silvia Celani



Cari amici lettori,

oggi Noemi ci parla di "Ogni piccola cosa interrotta", romanzo d'esordio di Silvia Celani, uscito il 23 maggio per Garzanti. Una storia che ci dimostra come siano le nostre imperfezioni a renderci più forti. Sono le no­stre fragilità a renderci quello che siamo. Sono loro a rendere la nostra vita davvero perfetta. Sono loro a tracciare la strada delle nostre cose interrotte.
Buona lettura!




Titolo: Ogni piccola cosa interrotta
Autrice: Silvia Celani
Editore: Garzanti
Genere: Narrativa Contemporanea
Uscita: 23 maggio
Pagine: 288, cartonato



È solo una bambina, a quest’ora dovrebbe essere nel suo letto. Ma deve ritrovare a ogni costo il carillon che il padre le ha regalato. Mentre prova a prenderlo quell’oggetto per lei così prezioso cade e va in mille pezzi. Pensa che qualcosa, dentro di lei, si sia rotto per sempre.

La mia vita è perfetta. Ho una grande casa e tanti amici.
Non mi interessa se mia madre si comporta come se io non esistessi. Se mio padre è morto quando ero piccola. Se non ricordo nulla della mia infanzia. Se, anche circondata da persone e parole, sono in realtà sola.
Io indosso ogni giorno la mia maschera, Vittoria la brava figlia, la brava amica, la brava studentessa. Io non dico mai di no a nessuno. Per me va benissimo così.
È questo senso di apnea l’unica cosa che mi infastidisce. Quando mi succede, quello che ho intorno diventa come estraneo, sconosciuto. Ma è solo una fase. Niente potrebbe andare storto nel mio mondo così impeccabile.
Ero convinta che fosse davvero tutto così perfetto. Fino al giorno in cui ho ritrovato i pezzi di un vecchio carillon di ceramica. Non so cosa sia. Non so da dove provenga. Non so perché mi faccia sentire un po’ spezzata e interrotta, come lui.
Ma so che, da quando ho provato a riassemblarlo, sono affiorati ricordi di me bambina. Della voce di mio padre che mi rassicura mentre mi canta una ninnananna. Momenti che avevo sepolto nel cuore perché, come quel vecchio carillon, all’improvviso si erano spezzati per sempre. Eppure ora ho capito che è l’imperfezione a rendere felici. Perché le cose rotte si possono aggiustare e diventare ancora più preziose.









Cari lettori,

Posso affermare che questo mese di maggio ho fatto il pieno di emozioni, perché anche questa settimana la storia che mi ha tenuto compagnia mi ha regalato sensazioni fortissime:

è notte, qualcuno sta brancolando nel buio, è una bambina, che nel silenzio più totale della casa, con la paura di essere scoperta dalla mamma, cerca il suo carillon, quello che la lega ulteriormente al suo papà; è stato lui a regalarglielo di ritorno da uno dei suoi tanti viaggi, e sostituisce la voce del papà con la sua melodia per accompagnarla nel mondo dei sogni. Lo vede, è lì dove sua mamma l’ha lasciato dopo averglielo sottratto per punizione. È in alto, troppo in alto, con un gesto disperato tenta l’impossibile; è quasi riuscita ad afferrarlo ma all’improvviso cade rovinosamente a terra e va in frantumi. È suo papà a consolarla, ad abbracciarla e cerca di farle capire che le cose possono sempre aggiustarsi, che nulla è mai perduto, anche se tutto cambia e quel cambiamento a volte può farci male o farci molta, molta paura.



«Domani ti mostrerò come far rinascere il tuo bel carillon», le assicura bisbigliandole quella promessa nell’incavo del collo. «Però, dovrai prima promettermi una cosa.» Lei si divincola dall’abbraccio e lo guarda negli occhi. «Che cosa, papà?» «Che non nasconderai mai le tue ferite, piccola mia. Perché ogni ferita guarita, ogni cosa spezzata, interrotta e poi aggiustata è più preziosa dell’oro.»

Vittoria ora ha ventun anni, studia chimica all’università, e non sta più bene: non sta più bene nella sua grande casa, non sta più bene dentro la sua pelle, con se stessa, non capisce più chi è. Vive in un mondo che non le piace, un mondo fatto di ricchezza troppo dimostrata, di egoismo, arroganza…



Un mondo fatto di maschere che Vittoria odia, ma che le vengono imposte dalla madre.

Vittoria si sente invisibile, soprattutto ai vitrei occhi di sua madre, che anche con un semplice sguardo non fanno altro che imporle qualcosa.

Possibile che mia madre non percepisse ciò che stavo passando? Che fossi tanto trasparente per lei? Che non le importasse proprio nulla di me, se non che mi attenessi scrupolosamente al ruolo che mi aveva imposto d’interpretare?

Vittoria con la madre non ha nessun rapporto, vivono nella stessa casa ma sembrano coinquiline, finché lei si limita a seguire le sue direttive, sua madre sta alla larga da lei. Vittoria parla, ma non viene ascoltata.

Sinceramente, fra i tanti personaggi della storia, che mi sono piaciuti tutti, la mamma di Vittoria, Marianna, non riuscivo proprio a capirla, o meglio non riuscivo a capire se dovevo cercare di comprenderla o odiarla.

Mi sono ricreduta, perché questa donna ha sofferto molto, amava così tanto suo marito, ma non immaginava che l’amore potesse trasformarsi in dolore, che quell’amore potesse essere un amore impossibile, un amore che a lei sarebbe rimasto precluso.

A Vittoria non resta nulla del padre, morto in un incidente, non un ricordo spazzato via dalla sua mente, non un oggetto o una foto spazzati via dalla furia della madre.

È questo che cerca, rincorrendo il suo passato, i suoi ricordi, cerca suo papà, vuole capire se almeno lui l’ha mai amata.




Non immagina che per il padre lei fosse la cosa più importante che aveva, non poteva immaginare che “scavando” alla ricerca di quest'ultimo avrebbe scoperto un mondo a lei sconosciuto nato da un amore che non avrebbe mai pensato di incontrare nella vita di suo padre. Ma soprattutto non immagina che sua padre sia morto trovando la forza di scegliere ciò che lo rendeva felice.

Ad ogni “ricordo” che torna, Vittoria viene sovrastata dalla paura, dagli attacchi di panico, che la portano nello studio della psicoterapeuta Grazia Rosario, e anche se all’inizio confidarsi con la dottoressa è difficile per Vittoria, alla fine quello studio diventa il suo porto sicuro.

Il resoconto delle sedute viene raccontato in capitoli “speciali” che intervallano la narrazione principale.

Attraverso una sacchettino con dei cocci di un carillon che non ricorda a chi appartiene, trovato per caso nella camera della madre, una foto di due ragazzini trovata in un libro, una scatola piena di lettere e delle iniziali incise sul muro del giardino della villa dove abita, inizia l’avventura di Vittoria, srotolando il filo del passato che la lega a tante anime che come lei hanno sofferto tanto; è quel filo che può “ridarle” indietro il suo papà.




Ad accompagnarla in quest’avventura è Ion, un ragazzo russo, che proviene da un mondo diverso dal suo, fatto di stenti e sacrifici, fatto di cicatrici e ferite nascoste.

La prima volta che lo vede al bancone di un bar, Vittoria pensa che anche per lui lei sia invisibile, ma col passare del tempo diventano una cosa sola perché soltanto insieme, Vittoria e Ion sono capaci di affrontare i propri demoni.

Ho adorato vedere crescere ed evolversi tutti i personaggi, ma soprattutto il personaggio di Vittoria, che prendendo coraggio riesce ad andare contro le convenzioni sociali da sempre impostele, e quello di Carlotta, l’amica di infanzia di Vittoria, che cerca di lasciarsi alle spalle “cattive compagnie” e iniziare a rafforzare il rapporto perso con l’amica Vittoria.

Per quanto riguarda il cambiamento della madre è un caso a parte, perché l’ho trovato da una parte straordinario, dall’altra un po' forzato.

Mi è piaciuto molto, ho amato la struttura con alla fine l’intervista all’autrice, ho amato la trama che infonde al lettore così tanta tenerezza che lo fa sentire spaesato e fragile, (ora non me ne vogliate, vi prego passatemi la metafora: il cuore del lettore si trasforma in burro fuso, e la trama con i personaggi sono la lama che affonda all’interno. Il tutto per dirvi che è una storia che lascia il segno, rimane dentro la mente e il cuore). Nella trama poi sono presenti piccoli dettagli, piccoli colpi di scena che ti tengono incollato.

Uno di questi dettagli, e la metafora che ne deriva, mi ha colpito più di tutti: il fatto che la dottoressa Rosario sia anche una restauratrice di ceramiche antiche, e che per “riparare” ogni oggetto utilizza il kingtsugi: i frammenti di un oggetto rotto vengono assemblati con colla e polvere d’oro, quasi come se stesse a significare che l’oggetto danneggiato “accetta e riconosce” le proprie fragilità e paradossalmente diventa più forte, più bello e anche più prezioso di prima; un po' come dovremmo fare noi umani con le nostre ferite, con le nostre fragilità, riempiendole d’amore.




Il finale non è spiazzante è vero, ma segue il filo conduttore delle emozioni e dei fatti narrati, senza lasciare nulla in sospeso.




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